Una statua per Peter Norman

16 Ottobre 2018

Il velocista australiano onorato a Melbourne, 50 anni dopo la storica finale dei 200 alle Olimpiadi di Messico ’68 in cui vinse l’argento prima di solidarizzare sul podio con gli statunitensi Smith e Carlos

di Giorgio Cimbrico

Cinquant’anni dopo anche Peter Norman avrà la sua statua: sarà di bronzo e verrà eretta al Lakeside Stadium di Melbourne. Meglio tardi che mai per il generoso australiano che ai Giochi di Messico ’68 espresse solidarietà a Tommie Smith e a John Carlos e al ritorno in patria si trovò a dover fronteggiare critiche e accuse, spesso basate su menzogne, preconcetti, intolleranza. Quattro anni dopo, pur avendone il diritto, non venne selezionato per l’Olimpiade di Monaco di Baviera.

“Non avrei mai pensato che un bianco potesse correre così veloce”, disse Carlos di Norman. Veloce, certo, capace di lasciarsi alle spalle John, di correre in 20.06, dopo mezzo secolo ancora record australiano e dell’Oceania. Peter corse la seconda metà in 9.4, accusando solo un decimo da Tommie Smith e guadagnandone tre su Carlos. Non aveva mai corso in altitudine ma, contrariamente al suo connazionale Ron Clarke, a 2000 metri abbondanti di quota si trovò benissimo.

Qualche minuto prima di entrare sul prato e di avviarsi verso la premiazione, né John né Tommie avrebbero pensato di trovare, più che un alleato, un uomo dall’animo generoso, “che rese più potente la nostra protesta”. Nel sottopassaggio Peter, insegnante e membro dell’Esercito della Salvezza (non un radicale, non un comunista, come sostenne qualcuno) chiese un distintivo dell’Olympic Project of Human Rights a Paul Hoffman, un canottiere (bianco) che glielo spillò sulla tuta. “Sono un sostenitore dei diritti umani e sono contro la politica sull’immigrazione praticata nel mio paese”: quella politica aveva un nome eloquente, White Australia. Peter regalò anche un consiglio spicciolo, legato alla necessità: “Avete solo un paio di guanti? Bene, mettetene uno a testa”. A Tommie toccò il destro, a John il sinistro.

Quando, nell’ottobre di 38 anni dopo, Norman morì 64enne per un attacco cardiaco dopo aver passato lunghi periodi di depressione, Tommie e John, che nel frattempo avevano avuto la loro statua nel campus dell’università di San José, volarono a Melbourne e portarono la bara dell’amico. Quel mostro senza volto che si chiama potere lo aveva perseguitato e solo nel 2012 il Parlamento di Canberra approvò un postumo atto di riabilitazione per chi non aveva nascosto di amare la pace e la fraternità.

Mezzo secolo dopo, la federazione australiana e il governo dello stato di Victoria lo onorano con una statua, con un giorno, il 9 ottobre, che porterà il suo nome, e con un premio a sfondo umanitario, andato quest’anno a un’associazione impegnata in Uganda.

“Sessantotto, l’anno del non ritorno”
Che anno il 1968! È davvero stato un anno spartiacque, nella vita e nello sport, segnato da molteplici eventi: dal Vietnam al Messico, dagli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy alle contestazioni studentesche senza dimenticare la Primavera di Praga. La rivoluzione è stata globale: è stata una rivoluzione che ha cambiato tutto. Ricordiamo alcuni episodi della vita di mezzo secolo fa: a Roma è andata in scena la battaglia di Valle Giulia; a Parigi, a Berlino e negli Stati Uniti centinaia di migliaia di persone hanno manifestato nelle strade. Infine, a Città del Messico, il 3 ottobre, a piazza delle Tre Culture nell’immediata vigilia delle Olimpiadi l’esercito ha sparato sugli studenti uccidendo centinaia di persone e ferendone migliaia. Una mattanza per reprimere ogni idea.
Il mondo dello sport non è stato da meno in questa rivoluzione. Alle Olimpiadi messicane di quell’anno Bob Beamon ha saltato 8,90 nel lungo; Dick Fosbury ha rivoluzionato il salto in alto dopo essere stato considerato un clown; Tommie Smith nei 200 metri è stato il primo uomo al mondo a correre ufficialmente sotto i 20.00 con 19.83 sulla pista in tartan prima di dare vita, sul podio, alla clamorosa protesta insieme a John Carlos con il pugno guantato di nero, pagando poi a caro prezzo quel gesto. Lee Evans nei 400 e David Hemery nei 400 ostacoli hanno vinto stupendo, Abebe Bikila ha preso parte ai suoi ultimi Giochi. In casa Italia, Giuseppe Gentile ha realizzato due primati del mondo nel salto triplo, 17,10 in qualificazione e poi 17,22 in finale, ma è finito al terzo posto; Eddy Ottoz nei 110 ostacoli ha centrato anche lui il bronzo mentre Klaus Dibiasi ha stupito il mondo nei tuffi.
Anno, il 1968, di grandi conquiste e di innovazioni come la creazione dei Giochi della Gioventù ma anche che vedranno la luce l’anno successivo, come la corsa verso la Luna.
«Abbiamo capito che nel 1968 a Città del Messico abbiamo perduto una grande occasione per far sentire la nostra voce, anche se allora la voce degli atleti, sia pure di grandi campioni, non era ascoltata come avviene oggi», ha scritto Michele Maffei nella postfazione.
Il libro, “Sessantotto, l’anno del non ritorno” (144 pagine, 13 euro) di Carlo Santi edito da Infinito Edizioni con la prefazione di Italo Cucci è un racconto veloce, un rapido diario, di tutto questo. Può essere acquistato in libreria ma può essere richiesto all’editore sul sito www.infinitoedizioni.it

 

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